L’immagine, colta in un istante determinato nel tempo, non viene stigmatizzata sulla carta, ma trasmette, mobile, lo svolgersi di un percorso emozionale capace di parlare al visitatore delle devastazioni di una storia che ha lasciato solo rovine per coloro che cercano il passato.
Le fotografie sono state realizzate nella regione del Sulcis-Iglesiente, a sud-ovest della Sardegna.
Nota dell’autore
Mio nonno combatté la Grande Guerra: prigioniero degli austriaci, scappò dal campo di concentramento di Mauthausen. Tornò in Italia a piedi. Non fuggì alle insidie della miniera. Una notte, un macchinario inventato per frantumare il minerale frantumò anche la sua vita.
Mio nonno – l’altro – era un esperto elettromeccanico motorista. Lavorò per cinquant’anni nelle miniere della Sardegna: a sessant’anni era completamente sordo.
La loro vita è lo specchio di altre innumerevoli esistenze. Queste storie private raccontano un dramma e, allo stesso tempo, la normalità di fatti che fino alla fine del secolo passato si sono ripetuti. Incalzanti e puntuali.
Certe volte lo scoppio della mina faceva crollare l’ingresso della galleria seppellendo tutto e tutti. Altre volte la miniera si prendeva la vita degli uomini per malattia, consumando i loro polmoni e le loro forze. Altre volte ancora i motori, per capriccio, si fermavano; per poi riprendere il loro moto devastante insieme alle vite di chi gli stava intorno.
Adesso la miniera è interrotta.
Non più morti, non più dinamite. Solo in paesi lontani ancora morti di miniera. E’ rimasta una deriva di ferro e macerie e la ferita nella terra. E’ rimasto un credito inesigibile avanzato da intere generazioni di lavoratori strappati alla terra per entrare dentro la terra.
Queste immagini vogliono raccontare la dimensione umana della miniera, con le sue macchine, gli spazi istituzionali, i luoghi che, attraverso il vissuto quotidiano, hanno lasciato un segno indelebile nella storia sociale della Sardegna; nella memoria di tutti coloro che non hanno ricordo dei loro padri; nella memoria di quanti hanno respirato l’odore del carburo, l’odore rancido del grasso che lubrificava il cavo della gabbia che calava gli uomini nel ventre nero della terra.